Starting Finance presenta la terza edizione di SFClub Magazine, la voce dei Club. Il lavoro di tanti giovani universitari si presta a diventare il compagno di letture ideale durante un’estate tanto anomala quanto unica. Redatto dalla Community, per la Community, è il frutto del lavoro di tanti giovani che condividono la stessa passione: informare ed essere informati e liberi di esprimersi attraverso il proprio potenziale.
La disuguaglianza etnica e razziale rappresenta uno degli ostacoli al progresso sociale delle nostre comunità. Con la morte di George Floyd, l’afroamericano ucciso da dei poliziotti a Minneapolis lo scorso 25 Maggio, è sembrato quasi come se il mondo si fosse accorto solo ora della necessità di una uguaglianza sociale completa e definitiva. Ma la dipartita di Floyd è soltanto la goccia che fa traboccare il vaso. In questa sede ci focalizziamo sulle disuguaglianze nell’accesso a ruoli dirigenziali nelle aziende. Partiamo dal presupposto che gli Stati Uniti rappresentano il Paese in cui convivono più etnie: americani bianchi, americani neri o afroamericani, asiatici, ispanici, nativi delle zone dell’Alaska e così via. Con questo articolo presentiamo una serie di dati che riguardano principalmente l’aspetto di discrimine tra i “bianchi” ed i “neri”.
Qual è la probabilità che una persona di colore assuma un ruolo dirigenziale nelle aziende più importanti al mondo? Risulterebbe difficile fornire un valore numerico ma proviamo ad analizzare il contesto con i fatti. Da qualche anno, la finanza tradizionale ha trovato un nuovo compagno di viaggio: la finanza etica o sostenibile. Quando parliamo di finanza etica, ci riferiamo a quell’accezione della materia che va oltre l’aspetto puramente economico, coinvolgendo un insieme di fattori che esulano dal semplice rendimento finanziario.
Il processo di individuazione degli strumenti finanziari “responsabili” rende necessaria una valutazione extra-finanziaria, ovvero l’analisi ESG (Environmental, Social e Governance), tendenzialmente svolta da una banca o da un’agenzia specializzata. Così come accade in ambito strettamente finanziario, la valutazione (rating) è espresso in una scala alfabetica (es. AAA o BB- ecc.).
L’analisi ESG tiene conto di quelli che sono gli aspetti ambientali, sociali e di governance. Per quanto concerne il tema “sociale”, la valutazione è positiva se l’azienda oggetto di analisi, garantisce le pari opportunità, i diritti dei lavoratori, il principio di non discriminazione, libertà di associazione, contrasto al lavoro infantile e forzato; mentre il tema di “governance” riguarda prevalentemente aspetti più tecnici, come la separazione tra Presidente e Amministratore delegato, l’indipendenza degli amministratori e la presenza di donne all’interno del CdA. Sia l’aspetto sociale sia quello di governance sono fondamentali per approfondire il tema della disuguaglianza razziale.
In un recente articolo del Financial Times, si faceva riferimento proprio ad un dato interessante: solo quattro società inserite nella Fortune 500 hanno un presidente del consiglio di amministrazione di colore: Roger Ferguson Jr., CEO di TIAA, Kenneth Frazier, Chairman di Merck & Co., Marvin Ellison, CEO di Lowe’s e Jide Zeitlin, CEO di Tapestry.
A conferma di questo dato, secondo un report pubblicato da Deloitte, su 5.670 impiegati nelle aziende inserite nel Fortune 500, l’83,9% (4.758) dei membri dei CdA sono occupati da bianchi e soltanto l’8,6% (486) da persone di colore. L’hashtag Black Lives Matter ha fatto sì che molte anime si siano mosse a favore di questo movimento, portando a prese di posizione e scelte come quella presa da Alexis Ohanian, CEO di Reddit, il quale si è dimesso con l’impegno nei confronti della sua società di sostituirlo con una persona di colore.
La disuguaglianza di genere, elemento del tema governance di cui sopra, è altrettanto un tema centrale. Infatti, secondo la ricerca “The CS Gender 3000 in 2019” del Credit Suisse Research Insitute, la percentuale di donne nei Cda su scala globale è aumentata del 50% negli ultimi dieci anni. Il rapporto ha analizzato 3 mila aziende di 56 Paesi.
A livello globale, all’ultimo posto troviamo il Giappone con il 5,7% di donne nei Cda, mentre l’Europa registra il 29,7%, grazie soprattutto alle diverse normative introdotte per migliorare le condizioni lavorative delle donne. In Nord America si registra un aumento dal 17,3% di quote rosa del 2015 al 24,7% nel 2020. Nel Sud America, invece, la quota femminile nelle posizioni dirigenziali si attesta al 7,8%. Ancora, Fortune rileva la presenza di due sole donne di colore nell’esecutivo aziendale: Ursula Burns, la quale ha amministrato Xereox dal 2009 al 2016 e Mary Winston, amministratrice di Bed Bath & Beyond e presidente dell’azienda WinsCo Enterprises Inc.
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Il Ponte sullo Stretto è stato, storicamente, al centro del dibattito politico portando alla formazione di due fazioni contrapposte dell’opinione pubblica: chi sostiene che il Ponte sia l’infrastruttura adatta per collegare la Sicilia alla Penisola e sostenere lo sviluppo economico del territorio; di contro, vi è chi sostiene che sia solo uno spreco di denaro pubblico e si andrebbe solo a deturpare il bellissimo panorama dello Stretto. La prima volta che si è parlato concretamente del Ponte fu nel 1866 con l’allora Ministro dei Lavori Pubblici Jaccini. Nel 1955 venne costituito il Gruppo Ponte Messina S.p.A con l’intento di promuovere studi sia a livello ambientale che ingegneristico per capire la reale fattibilità del progetto. Nel 1992 venne presentato il progetto preliminare, poi ulteriormente modificato negli anni.
I più convinti sostenitori della costruzione del Ponte furono i governi di centrodestra condotti da Silvio Berlusconi, in quegli anni si ha la formazione dei cantieri per la realizzazione delle opere preliminari propedeutiche alla costruzione del Ponte. Nel 2011, l’Unione Europea dichiara che non intende stanziare i fondi per un’opera non ritenuta prioritaria, sono ritenuti troppo onerosi gli 8,5 miliardi necessari per la realizzazione del progetto. Nel 2012, scattano le penali per la non realizzazione del progetto assegnato anni prima ad Eurolink, Stretto di Messina Spa dovrà risarcirli per 45 milioni.
Con l’attuale governo e con l’esigenza di capire come spendere i miliardi stanziati con il Recovery Fund dalla Commissione Europea, l’argomento Ponte sullo Stretto è tornato al centro dell’opinione pubblica; si ritiene che possa essere coerente con un progetto di importanti e moderni interventi infrastrutturali in tutta la Penisola.
Nel Giugno 2020, il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, rispondendo al question time al Senato, aveva dichiarato che in pochi mesi ci sarebbe stata la decisione sulla situazione del “Ponte sullo stretto” a seguito dell’analisi costi-benefici. L’analisi costi-benefici potrebbe durare qualche mese, è necessario, come previsto dal codice degli appalti, svolgere un approfondimento sulle ricadute ambientali, occupazionali e trasportistiche. In seguito, sarà effettuata una verifica di tutte le forze politiche e dei territori interessati.
Il beneficio che il ponte potrebbe portare è tutt’altro che irrilevante, basti pensare alla possibile realizzazione del fatidico “corridoio Berlino-Palermo” che agevolerebbe sia turismo che economia locale, senza dimenticare la creazione di un grande numero di posti di lavoro e soprattutto la possibilità di accorciare le distanze con l’intera Penisola, con un risparmio di un’ora e mezza sui lunghi viaggi effettuati in treno.
Tutto ciò però, si scontra con le ideologie opposte che tengono in considerazione le condizioni ambientali poco affidabili dello Stretto, il presunto aumento dell’inquinamento ma soprattutto l’enorme spesa pubblica da affrontare, che potrebbe essere utilizzata per le fatiscenti infrastrutture regionali e per ammodernare una rete ferroviaria, dove l’alta velocità è solo un miraggio, ancora non adatta alle esigenze di una società iperconnessa. Forse un giorno arriverà il tanto atteso verdetto, sperando sia volto a valorizzare un territorio ricco di bellezze naturali ma povero di attività produttive floride.
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Il momento tanto atteso da tutti gli appassionati è finalmente arrivato: giovedì 11 giugno Sony ha annunciato, tramite un’entusiasmante diretta sui canali Twitch e Youtube, l’uscita della nuova generazione della console di videogiochi più famosa al mondo: la PlayStation 5. Le vendite partiranno nel novembre 2020, come da prassi. La casa di produzione giapponese, infatti, ci ha ormai abituati all’uscita delle nuove piattaforme con un intervallo di 5-6 anni tra una e l’altra.
Per quanto riguarda l’aspetto e le caratteristiche tecniche di PS5 dubbi non ce ne sono, si prospetta infatti essere una macchina potentissima al passo con tutte le nuove tecnologie. Le incertezze invece, riguardano il prezzo di listino. Le previsioni più ottimiste parlavano di una cifra simile a quella di PS4 ai tempi del suo lancio (2013), poco più di 400 euro. A frenare gli entusiasmi, però, si sono aggiunte sirene importanti dall’Inghilterra, le quali inquadrano il più probabile prezzo di lancio intorno alle 600 sterline (circa 660 euro).
Ad influenzare la cifra concorrono principalmente due fattori: il prezzo di listino che Microsoft, il principale competitor, sceglierà per la sua Xbox Series X e il costo di produzione. Quest’ultimo è stato rivelato dal reporter giapponese di Bloomberg Takashi Mochizuki, il quale, tramite uno studio di dati e informazioni a sua conoscenza, ha stimato essere di 400 euro. L’elevato costo si presume sia dato dal prezzo delle memorie DRAM, dagli SSD e dall’evoluto sistema di raffreddamento presente nella console.
Interessante, a questo proposito, il dibattito commerciale sorto internamente alla multinazionale di Tokyo tra CEO e CFO. Il primo sostiene la vendita in perdita, puntando a guadagnare sull’utenza, mentre il direttore finanziario sembra voler guadagnare anche dalla vendita della console; strategia che, ad oggi, sembra quella prescelta.
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È chiaro ormai a tutti che una (buona) parte dell’economia reale abbia trovato una nuova casa nel mondo di Internet, per sua natura impalpabile e difficilmente controllabile. L’immaterialità di molti dei beni e dei servizi scambiati su internet pone dei problemi, da anni, sul piano della tassazione. Percezione diffusa è che non tutto il valore creato dagli scambi su Internet in un determinato luogo venga tassato secondo le regole del Paese in questione: perciò, data la rilevanza dell’economia del web, il gettito non percepito da alcuni Stati raggiunge l’ammontare di centinaia di milioni di euro.
Qualcuno, negli scorsi anni, ha cercato di porre una soluzione a questo problema. La Francia di Macron, nel luglio 2019, aveva annunciato l’introduzione di una tassa del 3% sui ricavi annuali delle multinazionali estere che offrono beni e servizi digitali sul territorio francese: mossa che aveva stizzito l’amministrazione Trump, preoccupata per gli evidenti svantaggi che avrebbe portato alle aziende statunitensi (Amazon, Twitter, Facebook, Google), che praticamente dominano incontrastate il mondo di Internet.
La consapevolezza della necessità di una soluzione multilaterale ha portato gli Stati Uniti, supportati dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo (OECD) a proporre negoziati che avrebbero dovuto portare alla definizione di una tassa globale sull’economia digitale. Paradossalmente, gli stessi Stati Uniti hanno dichiarato, nella giornata del 17 giugno, che si sarebbero ritirati temporaneamente dalle trattative. Non solo: sono state anche minacciate sanzioni e dazi aggiuntivi ai Paesi che avrebbero applicato unilateralmente tasse digitali nazionali.
Il pericolo di una guerra commerciale tra Stati Uniti ed UE è al momento alto, dato che più esponenti del vecchio continente (tra cui, il Commissario agli Affari Economici Gentiloni) si sono detti pronti alla creazione di una tassa digitale europea, in mancanza di un accordo con gli USA: tassa ad oggi ancora più necessaria, dato il bisogno di liquidità per poter realizzare il programma Next Generation EU.
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La tecnologia Blockchain, ormai sempre più attuale, si sta conquistando una posizione decisiva all’interno dello scenario economico mondiale e, secondo le ricerche della società Fortune Business Insight, il valore di questo settore può arrivare a quota 21 miliardi già nel 2025. Il periodo di incertezza e recessione portato dal virus Covid-19 ha spinto numerosi governi in tutto il mondo a investimenti per implementare questa tecnologia al fine di accelerare il processo di ripresa economica.
L’Italia, sebbene i numeri siano ancora ridotti paragonati a quelli delle principali potenze mondiali, sta dimostrando la sua apertura passando da quota 16 milioni nel 2017 a quota 92 milioni prevista entro fine 2020, con un CAGR stimato al 79,2%. A beneficiare dei vantaggi portati dalla Blockchain non è esclusivamente il settore finanziario, seppur leader affermato per quanto riguarda le sue applicazioni.
L’Italia, per reagire al colpo subito, ha bisogno di ripartire dai suoi punti di forza e la tecnologia rappresenta lo strumento ideale per valorizzarli. La Blockchain, attraverso trasparenza e immutabilità, può garantire e proteggere l’eccellenza del made in Italy, tutelando il lavoro svolto in prima linea dalle piccole e medie imprese.
Il Belpaese è però anche vittima del mercato del falso che costa al nostro paese 10,5 miliardi di euro all’anno, cifra che corrisponde a un sesto del totale delle perdite europee. L’ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà intellettuale (Euipo) analizzando 11 settori che vanno dai cosmetici al vino, ha stimato che il 10% del valore del volume delle vendite in Italia finisce nelle tasche dei falsari; dato nettamente superiore alla media europea la quale si attesta al 7,4%.
L’implementazione della Blockchain aiuterebbe il tricolore a difendere la qualità e la tradizione unica dalle minacce estere. La completa tracciabilità garantita sarà fondamentale per svariati settori dell’economia italiana come moda, food&wine e design.
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La crisi sanitaria globale ha messo in luce molte vulnerabilità del cyberspazio e l’importanza di assicurarne la resilienza delle infrastrutture critiche. In un mondo in cui la maggior parte delle attività economiche dipendono dalle reti informatiche, è divenuto fondamentale investire in sicurezza informatica. Le aziende, dovendo integrare nel proprio processo produttivo infrastrutture IT (Information technology), sono sempre più esposte a minacce informatiche. Tra queste vi è il ransomware. Il ransomware è un tipo di malware (virus informatico) che rende inaccessibili i dati del dispositivo che infetta, richiedendo il pagamento di un riscatto (ransom) per ripristinarli.
Lo scorso maggio Sophos, società inglese che fornisce servizi in ambito informatico, ha pubblicato una ricerca che mette in luce le perdite economiche subite dalle aziende di vari paesi del mondo a causa di attacchi ransomware. L’indagine ha coinvolto 5mila aziende e ha rivelato che il 51% di esse ha subito almeno un attacco di questo tipo nello scorso anno, e circa il 27% di queste aziende ha dichiarato di aver pagato il riscatto.
Nell’indagine sono stati intervistati duecento responsabili IT di aziende italiane. Questa ha fatto emergere che nell’ultimo anno il 28% delle aziende italiane è stato colpito almeno una volta da un attacco ransomware, anche se solo una piccola percentuale (6%) di esse ha pagato il riscatto. L’Italia è uno dei paesi che si difende in modo più efficace da questi attacchi, risultando essere il terzo paese per percentuale di attacchi contrastati.
I malware producono un danno consistente all’economia aziendale. Si stima che nel solo 2019 questi attacchi abbiano causato una perdita di 179 miliardi di dollari alle aziende di tutto il mondo. La ricerca condotta da Sophos sottolinea come l’attacco produca un danno economico anche quando il riscatto non viene pagato. Infatti, il ransomware, compromettendo la disponibilità dei dati, può causare un’interruzione della business continuity, lasciando le aziende impossibilitate di proseguire nel proprio lavoro o di espletare alcune funzioni fondamentali.
Il costo medio globale di un attacco per le aziende, considerati il costo dei dispositivi, le opportunità perse e l’inattività, è di 761.106 dollari. Per le aziende che impiegano tra i cento e i mille dipendenti esso scende a 505.807 dollari, mentre arriva a 981,140 dollari per le aziende che hanno tra i mille e i 5mila impiegati.
Il costo medio di un attacco varia notevolmente da paese a paese. In Italia esso è pari a 443.552 dollari, di molto inferiore alla media. Sophos sostiene che la variazione del costo potrebbe dipendere in buona parte dal costo del lavoro, il che spiegherebbe l’elevato costo di un attacco in Svezia, pari a 2.749.667 dollari. Il costo medio di un attacco raddoppia se viene pagato il riscatto, fino a raggiungere 1.448.458 dollari, in quanto è necessario ripristinare le reti e riparare i dispositivi danneggiati.
La ricerca fa emergere un altro aspetto importante. Questa tipologia di attacco colpisce maggiormente il settore privato, in particolare le aziende che operano nel campo dell’informazione e dell’intrattenimento. Nonostante i numerosi attacchi ai danni di reti governative e di infrastrutture sanitarie, le aziende private, probabilmente a causa di una minore capacità di prevenzione, subiscono le maggiori perdite economiche. Nonostante il settore privato sia più esposto a questi attacchi, è quello pubblico che subisce maggiori danni economici. Infatti, solamente il 51% delle società pubbliche è dotato di un’assicurazione che permetta di mitigare i costi dei ransomware.
Per fronteggiare i ransomware lo strumento più efficace è la prevenzione, tramite aggiornamenti continui dei software e del backup dei dati o tramite l’acquisto di tecnologie anti-ransomware che bloccano la criptazione dei dati. Tuttavia, esistono altri strumenti per difendersi, soprattutto dal punto di vista economico. Esiste, infatti, un’assicurazione per la sicurezza informatica che copre i danni economici causati dai ransomware. In Italia l’88% delle aziende possiede un’assicurazione per la sicurezza informatica, ma solo il 68% è fornita di quella specifica contro i ransomware; una percentuale comunque superiroe alla media globale.
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Come Microsoft 10 anni fa, oggi è Apple a finire (di nuovo) nel mirino delle autorità antitrust. Margrethe Vestager, responsabile della Commissione Europea per la concorrenza, è famosa per andare fino in fondo alle indagini che apre e stavolta ha deciso di concentrarsi su Apple. L’accusa per Apple Pay e App Store è quella di aver violato la normativa antitrust che vieta pratiche monopolistiche ed atti di concorrenza sleali.
Come sappiamo, su App Store, Apple svolge un doppio ruolo: da un lato è mero provider come canale distributivo di applicazioni e contenuti vari, dall’altro vende e promuove sullo stesso canale i suoi stessi servizi e contenuti. Ad oggi esiste un duopolio tra Apple e Google nel mercato dei provider di servizi per smartphone e quindi, un qualsiasi soggetto che decida di promuovere e vendere il suo servizio agli utenti, deve obbligatoriamente inserirsi sulla piattaforma App Store perchè altrimenti rischierebbe di non raggiungere un’ampia fetta di mercato globale.
Parlando di numeri, solo l’anno scorso l’App Store di Apple ha fruttato 519 miliardi di dollari di cui 413 sono beni fisici e servizi e 45 sono invece rappresentati da pubblicità all’interno delle app. Ma quello su cui Apple guadagna sono i rimanenti 63 miliardi costituiti da beni digitali e servizi.
Stando così le cose, le accuse che sorgono in capo ad App Store sono sia in merito al suo sistema di acquisto vero e proprio, sia riguardo le opzioni di acquisto alternative che vengono sviluppate e messe a disposizione dei clienti da altri sviluppatori al di fuori di App Store. Il dramma nasce già nel 2019 quando sia il noto servizio di musica streaming Spotify sia il player di eReader Kobo portano all’attenzione generale il funzionamento dell’App Store di Apple, affermando come riesca ad ottenere il 30% il primo anno e il 15% dal secondo anno in poi dalla sottoscrizione di abbonamenti, vendite di ebook ed altri, su ogni app scaricata dal suo store.
Recentemente il dibattito è stato riacceso in seguito al lancio di Hey. La nuova app di Basecamp è un servizio di posta elettronica premium in abbonamento che con 99 euro annui permette di avere un indirizzo mail personalizzato con funzionalità aggiuntive. Il punto è che la sottoscrizione dell’abbonamento non avviene all’interno dell’applicazione (con il conseguente guadagno del 30% da parte di Apple) ma piuttosto sul sito Web Hey. In risposta, Apple ha deciso di bloccarla ritenendola “non in linea con la policy aziendale”: ‘l’app deve fare qualcosa quando si installa la prima volta, non può non far nulla’. Basecamp ha allora aggiunto la prova gratuita di 14 giorni e il conflitto si è risolto.
Relativamente all’indagine su Apple Pay, il problema è più tecnico: pare che Apple abbia limitato l’accesso al NFC (Near Field Communication), ovvero il sistema dei pagamenti contactless, dei suoi dispositivi iPhone e Apple Watch. Banche e altri fornitori di servizi di pagamento non possono così servirsi del sistema tap-and-go. In tutta la bufera, Apple risponde:
Siamo delusi nel constatare che la Commissione Europea stia dando seguito alle lamentele infondate di alcune aziende che vogliono semplicemente ottenere uno sconto e non agiscono secondo le stesse regole rispettate dalle altre.
Come stanno effettivamente le cose considerando che anche il Dipartimento di Giustizia USA ha deciso di aprire un’indagine sul colosso americano?
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La rubrica FunCode si propone di rendere il mondo della programmazione, sempre più centrale nel business e nella finanza, più accessibile ed interessante, con esempi ed usi utili e divertenti.
Excel ed i fogli di calcolo sono probabilmente gli ambienti di analisi dati e programmazione non professionale più diffusi al mondo. In azienda, inoltre, i fogli di calcolo sono lo strumento di comunicazione prevalente per la condivisione di dati tra le diverse aree aziendali, rendendoli così un vero e proprio sistema di comunicazione, un linguaggio, con sintassi e regole proprie. Data la diffusione della suite Office, recentemente ridenominata Microsoft 365, si stima che ci siano tra i 600 milioni e gli 1,2 miliardi di utenti Excel, che ne fanno il secondo o terzo linguaggio per numero di “parlanti”, secondo i dati Ethnologue (2019), dopo l’Inglese (1,27 mld), il Mandarino (1,12 mld) e prima dell’Hindi (640 mln).
La centralità dei fogli di calcolo è quindi evidente e dimostrare questa abilità nel curriculum e nei colloqui è fondamentale per avere successo nel processo di recruiting. Quindi, cosa potrebbe essere meglio di mostrare il proprio CV in Excel? Quanto può essere più efficace non avere il classico frasario da CV “Highly Proficient in Excel” ma dimostrare effettivamente la propria padronanza del programma?
Per costruire il proprio curriculum all’interno di Excel è utile partire da template preesistenti, che possono essere adattati secondo i propri gusti e secondo le esigenze: infatti è sempre utile modificare il proprio CV secondo il destinatario cui lo si indirizza. Utili templates possono essere trovati con la chiave di ricerca “resume templates in excel”.
Poi, se si ha voglia di costruire da zero un curriculum in Excel che sia anche interattivo si può seguire la guida di Ming Fung Wong, divulgatore di Excel col suo blog “wmfexcel”, che consentirà di creare una dashboard in cui le tab sono le sezioni del CV che possono essere personalizzate secondo esigenza, con una lettura totalmente interattiva delle proprie informazioni ed esperienze, e che dimostrerà al lettore la propria abilità con l’uso delle tabelle pivot, delle immagini collegate, dei filtri dati (slicer), della formattazione condizionale e delle liste personalizzate.
L’intero CV, come molte dashboard, si basa interamente sull’uso di immagini collegate che sono manipolate tramite filtri dati all’interno di una tabella pivot, così da risultare interattive nel foglio principale, mentre nei fogli collegati saranno presenti e personalizzabili tutte le informazioni ed i contenuti. L’unica pecca di questa soluzione è che se il valutatore non ha attenzione all’uso di Excel o stampa il formato xlsx non potrà visualizzare correttamente il CV interattivo fatto in ambiente Excel. E sarebbe un vero peccato.
Un ulteriore avanzamento nel rendere totalmente in Excel il proprio curriculum è trasformare la propria foto in un foglio di calcolo. Gli schermi, indipendentemente dalla tecnologia, possono essere definiti come una griglia di piccolissimi punti (pixel) che si illuminano con intensità variabile in uno di questi tre (solitamente) colori, rosso, blu e verde. Viene quindi facile pensare che un’immagine possa essere rappresentata da un foglio di calcolo (la griglia di punti) che con la formattazione condizionale (nei tre colori RGB) riesce a visualizzare l’immagine di partenza, se opportunamente elaborato. In questo è utile, e divertente, il contributo di Matt Parker, divulgatore comico-scientifico, che mette a disposizione un tool che rende ogni immagine un file xlsx, e di seguito c’è un esempio dell’effetto ottenuto.
Come per gli appuntamenti passati, ci sono un paio di consigli utili per passare il tempo giocando con Excel. Anche per gli amati fogli di calcolo sono state sviluppate varie versioni di Campo Minato, e si propone una versione molto particolare, creata usando solo formule e formattazione condizionale, senza codice VBA (il linguaggio di programmazione interno ad Excel). Per gli amanti dell’avventura, invece, si propone un vero e proprio gioco di ruolo dal fascino retrò, scritto da Cary Walkin, consulente contabile, che rappresenta il miglior esempio di gioco sviluppato usando Excel e VBA.
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La pandemia da Covid-19 è stata la protagonista indiscussa, seppur per nulla gradita, di questa prima metà del 2020. L’economia a livello globale è stata e continua ad essere fortemente colpita da questo nemico invisibile, con lievi cenni di una speranzosa quanto necessaria ripartenza.
Seppur sui principali mezzi di comunicazione ed informazione si faccia spesso riferimento ai risvolti macroeconomici della pandemia, a livello di singolo individuo il lockdown ha avuto un profondo impatto soprattutto su un fattore: le abitudini. La vita quotidiana è stata completamente rivoluzionata, in ogni sua sfaccettatura, anche dal punto di vista degli acquisti di beni e servizi, per i quali il canale digitale si è rivelato per molti versi l’unica scelta percorribile.
La pandemia ha infatti portato con sé la necessità di ricorrere a supporti digitali al fine di assolvere tasks e abitudini che fino a qualche mese fa erano portate a termine direttamente in store, delineando una forte convergenza della domanda verso i canali online. Basta dare uno sguardo ai dati Nielsen per capire quanto la quarantena abbia cambiato il nostro rapporto con l’e-commerce e il mondo digitale: il trend delle vendite di prodotti di largo consumo online è cresciuto enormemente, passando da un 81,0% (dati relativi alla settimana 24 Febbraio – 1 Marzo) a un +142,3% (rilevato tra il 23 e il 29 marzo).
Nello stesso mese, l’isolamento ha portato ad un aumento del 60% del traffico Internet. In Italia il 72% degli utenti ha speso più tempo sullo smartphone rispetto a prima: in particolare, il traffico è aumentato per i siti della grande distribuzione (oltre il 250%) e il food delivery. Questo si è anche tradotto in un evidente nervosismo dei prezzi. Difatti, la frequenza con cui questi sono fluttuati online è aumentata del 37,2%. La fluttuazione dei prezzi si è vista in tutti i settori, ma in particolare nella grande distribuzione, nel farmaceutico (+8%) e nell’elettronica di consumo.
Per la generazione dei Millennials, che già godeva di una certa familiarità con i canali di acquisto online, il cambiamento nelle abitudini determinato dal Covid-19 non ha causato processi forzati di adattamento. Per i più maturi non si può dire la stessa cosa. Il popolo italiano, con principale riferimento agli over cinquanta, è caratterizzato da una sorta di reticenza ai pagamenti online, diffidando dall’inserimento in rete di informazioni relative alla propria persona o al proprio conto bancario/carta di credito. I più grandi cambiamenti nelle abitudini di acquisto sono stati registrati, infatti, proprio nei consumatori di età compresa tra i 50 e i 75 anni.
Non a caso, dati Ipsos legati all’e-commerce e registrati nel periodo in questione, segnalano che il 75% delle persone che hanno acquistato online lo ha fatto per la prima volta nella propria vita, segnale di un totale sdoganamento della frontiera online anche per i consumatori più maturi.
Per le imprese, questo notevole aumento nel ricorso al canale digitale ha portato ad un ampliamento dei punti di contatto con quei consumatori che precedentemente ricorrevano solo al canale offline per il soddisfacimento dei propri bisogni. Questo ragionamento può sembrare alquanto assurdo e per questo va spiegato più approfonditamente. Come può il quasi totale annullamento del canale di vendita offline (seppur per un periodo limitato di tempo) aver generato maggiori contatti ed interazioni tra brand e consumatori?
Per rispondere a questa domanda, bisogna entrare nei panni dell’impresa e di come questa si relaziona al cliente finale. Le imprese studiano meticolosamente il percorso effettuato dai consumatori verso il soddisfacimento dei propri bisogni, attingendo informazioni dai loro comportamenti e provando ad influenzarli a loro volta mediante punti di interazione, i contatti, denominati touchpoints. Maggiori sono le informazioni acquisite sui consumatori, maggiori sono i touchpoints attivabili per spostare le loro preferenze verso i prodotti e i servizi del proprio brand. L’insieme delle interazioni che si verificano tra impresa e consumatore durante il processo di acquisto genera il Customer Journey, letteralmente “il viaggio del consumatore”.
Il Customer Journey è contraddistinto da varie fasi, attraverso il quale il consumatore entra in contatto con il brand (Awareness), familiarizza con lo stesso (Consideration), procede all’acquisto (Purchase), viene “curato” dall’impresa al fine di fidelizzarlo (Retention), e in ultimo si fidelizza, diventando promoter del brand (Advocacy).
In ognuna di queste fasi, le imprese generano touchpoint diversi (come visibile in figura) per entrare in contatto con il consumatore ed influenzarne percezioni e scelte. Durante il lockdown, il viaggio del consumatore è stato principalmente digitale, utilizzando i canali online di acquisto: si parla quindi di Digital Customer Journey.
In altri termini, nel periodo in questione, le imprese hanno continuato ad acquisire informazioni su gusti, preferenze e bisogni di consumatori già avvezzi all’acquisto online (e probabilmente già fidelizzati al brand), ma sono soprattutto entrate in contatto con profili nuovi di acquirenti, i quali si sono affacciati al canale di acquisto digitale per la prima volta e che ora divengono fonte di dati e analytics molto importanti per i brand.
Per trattenere questi “nuovi consumatori” (ma fondamentalmente è un processo di cura che riguarda anche consumatori già fidelizzati) le imprese hanno aumentato l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per la personalizzazione del Customer Journey mediante principalmente algoritmi dedicati a piattaforme CRM e di email marketing (basti pensare che dal 2018, l’utilizzo di AI nei processi di marketing è cresciuto del 178%), e in questo periodo quantomai si è sentita l’esigenza di sfruttare appieno il canale online per intensificare i contatti con i consumatori.
Inoltre, per migliorare l’esperienza di acquisto online i brand si sono focalizzati su dinamiche più ‘conversazionali’ e sull’assistenza proattiva dei clienti per aiutare la navigazione (attraverso chat/chatbot), su sistemi automatizzati per ottimizzare il visual merchandising e sul miglioramento importante delle supply chain capabilities.
Come affermato precedentemente, il lockdown causato dalla pandemia Covid-19 ha avuto effetti sia dal lato della domanda che dell’offerta. Il “consumatore post-lockdown” ha fatto propri i cambiamenti nelle abitudini di acquisto, non solo da un punto di vista del canale utilizzato, ma anche a livello psicologico, emozionale.
Nel rapporto con i brand, il desiderio di velocità e personalizzazione è stato affiancato dalla necessità di sicurezza nell’interazione. Di conseguenza, le imprese hanno dovuto adattare il tono ed il contenuto delle proprie offerte di valore a questa nuova esigenza degli individui. In questo particolare momento storico, è di fondamentale importanza comunicare con le persone utilizzando il linguaggio corretto per guadagnare attenzione, fiducia, coinvolgimento e fedeltà.
La riapertura degli store fisici è stata quindi la prova del nove, al fine di riuscire a convertire questi aspetti psicologici nella realtà, in una vera e propria esperienza di acquisto. Infatti, di pari passo con una presenza più forte e solida dei brand sui canali online, occorre una riprogettazione anche dei negozi reali, cioè del marketplace, per gestire il traffico all’interno dei negozi e ottimizzare i percorsi nel rispetto del distanziamento.
Da un’analisi condotta da KPMG in relazione alla nuova Customer Experience post-lockdown, risulta particolarmente evidente come le imprese abbiano fatto tesoro del maggior flusso di informazioni su bisogni e preferenze degli individui, ottenuti mediante canali online, per offrire un’esperienza migliorata a 360 gradi. Nello specifico, la perfetta combinazione tra digitale e fisico all’interno del Costumer Journey genera un’esperienza molto più fluida, continua e gratificante.
Il consumatore, mediante app create ad hoc dai brand, può sfogliare il catalogo online direttamente da casa, effettuare prenotazione e pagamento, e recarsi nello store fisico solo ed esclusivamente per ritirare il prodotto. In tal modo, oltre all’ottimizzazione di tempi e spazi, si riesce a garantire il perfetto rispetto delle regole di distanziamento a tutela della sicurezza dei consumatori.
Connettere tutti i punti di contatto durante il suo Customer Journey per creare ogni volta un’esperienza migliore è una sfida che le imprese stanno accogliendo con maggior frequenza, adattando l’utilizzo dei diversi canali di vendita e touchpoint in un’ottica unilateralista, al fine di generare nel consumatore quel senso di fiducia, sicurezza ed appartenenza che, come affermato in precedenza, dirige la scelte del “consumatore post-lockdown” all’interno del suo viaggio.
Sicuramente è ancora presto per dare una valutazione sommaria e conclusiva di quanto il Covid-19 abbia influenzato le scelte dei consumatori, soprattutto perché, purtroppo, è un capitolo non ancora chiuso. Quel che è certo è che tra imprese e individui si siano instaurate delle interazioni molto più intense ed emotive, che certamente produrranno risultati positivi nel lungo periodo.
Fonti
Carlo Ferrari, Responsabile - SFClub Cattolica
Carola Iansante, Graphic Designer versione PDF - SFClub Cattolica
Riccardo De Mei & Simone Conti, Design e realizzazione della versione HTML - Starting Finance
Andrea Ciotti, Project Manager Starting Finance Club
Alen Salatiello, General Manager Starting Finance Club
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